Da una bancarella un curioso ritrovamento: ecco come si parlava di cactus nell’Italia di 60 anni fa

Opuscolo Intrepido ritrovamento

Il Serpente”, “L’Imperatrice”, “Il Riccio”, “La Testa Irsuta”, “Il Tessitore”, “Il Re del Deserto”. Ecco come in Italia negli anni Sessanta venivano chiamati alcuni comuni cactus ancora oggi molto diffusi in coltivazione. Erano gli anni del boom economico e per quanto il Paese fosse concentrato sul rilancio dell’economia, la fantasia evidentemente non mancava. Oggi la maggior parte di questi nomignoli non è più in uso e fa sorridere leggere queste definizioni per le cactacee, ma anche questo è un piccolo spaccato di storia, un piccolo esempio di come cambiano usi e costumi nel tempo. Questa “finestra sul passato” mi è offerta da un ritrovamento fortuito, avvenuto qualche mese fa, tra i tomi di una bancarella di libri. Tra un volume e l’altro, ecco spuntare un opuscolo, un fascicoletto a colori in carta sottile, ingiallito dal tempo ma tutto sommato ancora ben conservato. Il titolo della mini guida (il formato è di 11 centimetri di lunghezza per 17 centimetri di altezza e le pagine sono in tutto 16) è semplicemente “Cactus – Enciclopedia della flora”. Da quello che sono riuscito a ricostruire, si tratta di un inserto dell’allora ben nota rivista “Intrepido” uscito con il numero 42 del 18 ottobre 1962. Esattamente sessanta anni fa. 

Per chi ama le cactacee, ama le curiosità e subisce il fascino del passato (come me), ecco allora un piccolo tuffo in quegli anni Sessanta (…)

Una piccola premessa, anzitutto. Della rivista “Intrepido” abbiamo certamente quasi tutti sentito parlare (e molti l’avranno letta abitualmente). Era un periodico a fumetti pubblicato a partire dagli anni Trenta dalla Casa Editrice Universo dei fratelli Alceo, Cino e Domenico Del Duca. Incredibile a dirsi – quantomeno oggi, a fronte dell’enorme mutamento che ha travolto l’editoria -, Intrepido ha chiuso i battenti solo alla fine degli anni Novanta, pubblicando così più di tremila numeri e sopravvivendo a un conflitto mondiale e, nel complesso, uscendo nelle edicole per almeno una sessantina di anni. Un risultato, oggi come oggi, impensabile per un cartaceo.

Riporto da Wikipedia: “La testata esordì il 23 febbraio 1935 e proseguì la pubblicazione fino al n. 42 del 19 dicembre 1943; dopo un’interruzione dovuta agli eventi bellici, riprese le pubblicazioni con un nuovo n. 1 il 23 agosto 1945, continuando poi, ininterrottamente, fino al gennaio 1998 quando venne chiusa dopo 3.028 numeri pubblicati”.

Opuscolo Intrepido
La copertina dell’opuscolo (cliccare per ingrandire)

Evidentemente, in abbinata ad alcune uscite, la rivista ha pubblicato alcuni inserti e quello che mi è capitato per le mani (un apprezzato regalo) è semplicemente un piccolo speciale dedicato – chissà per quali ragioni, forse perché all’epoca si stava diffondendo la passione per le cactacee? – ai cactus. Probabilmente l’opuscolo faceva parte di una collana, come parrebbe suggerire il sottotitolo: “Enciclopedia della flora”. Fatto è che in queste poche pagine ormai ingiallite dal tempo è condensato un breviario non tanto sulla coltivazione delle cactacee, quanto sulla descrizione di alcuni generi probabilmente all’epoca diffusi in commercio. Nel volumetto non sono state pubblicate fotografie, bensì disegni a colori delle piante e per ogni genere trattato vi sono raffigurazioni del fusto, delle spine, del fiore, la riproduzione della sezione trasversale del fusto. In alto compare il nome con il quale in quegli anni si identificava comunemente la pianta (se volete approfondire il tema dei nomi comuni attribuiti nei secoli a cactus e succulente vi consiglio la lettura di questo mio articolo). Accanto al nome comune e in caratteri con corpo ridotto, compare tra parentesi il nome scientifico della pianta.

E già questo – nome comune e nome scientifico – fornisce interessanti informazioni, dal momento che tanto il primo quanto il secondo, in moltissimi casi, oggi non sono più in uso. Evidentemente i nomi comuni erano frutto di una ricerca condotta dal redattore a quel tempo e oggi solo alcune delle cactacee elencate nell’opuscolo conservano lo stesso nomignolo (ad esempio “La regina della notte”, che ancora oggi identifica Selenicereus grandiflorus). Quanto ai nomi scientifici, non stupisce affatto che moltissimi tra quelli in uso negli anni Sessanta siano oggi cambiati: la tassonomia è in continua evoluzione e ancora oggi capita di assistere a modifiche e diatribe tra i ricercatori (sulla classificazione delle succulente, se volete farvi un’idea generale, ho scritto in questo articolo).

In calce a ogni pagina dell’opuscolo, infine, si trova un box a sfondo giallo con cinque o sei righe di descrizione della pianta in questione. Ed è qui che è possibile ricavare le informazioni più interessanti sul livello di conoscenza delle cactacee in quegli anni in Italia (ricordiamo che all’epoca Giuseppe Lodi non aveva ancora scritto il suo fondamentale “Le mie piante grasse”, che dagli anni Ottanta sarebbe diventata la prima vera “Bibbia” dei cactofili italiani).

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Le prime pagine interne (cliccare per ingrandire)

Un esempio per capire come è organizzato l’opuscolo che vedete nelle foto a corredo di questo articolo. Voltata la copertina, ecco la prima pianta trattata: “Il Serpente (Cereus flagelliformis)”. Salvo per il disegno dei fiori, particolarmente grandi, sembrerebbe proprio di trovarsi di fronte a quello che oggi è classificato come Aporocactus flagelliformis, noto col nome comune di “coda di topo”. Il box in alto riporta gli estremi della classificazione: “Gruppo: Monoclamidee; Ordine: Centrosperme; Famiglia: Cactacee; Genere: Cereus”. Ecco la descrizione a pie’ di pagina: “E’ forse il cactus più coltivato del mondo. Originario del Messico, fu importato in Europa verso la fine del 1700. I suoi rami, dello spessore di un dito, possono raggiungere la lunghezza di 2 metri, ciò che gli ha valso il nome di “Cactus serpente”. Fiorisce in maggio-giugno ed i suoi fiori hanno un diametro di 10-13 centimetri”.

L’opuscolo prosegue con “La Regina della notte”, qui identificata come Peniocereus greggii (nome scientifico ancora oggi in uso), poi con due pagine con immagini a colori e la descrizione del “Dollaro della sabbia”, nome comune con il quale ancora oggi si identifica Astrophytum asterias (anche il nome scientifico in questo caso corrisponde). Eccone la descrizione in calce alla pagina: “Questo singolarissimo cactus, originario del Messico, durante i periodi di siccità si appiattisce contro il suolo sino a rendersi praticamente invisibile. Per questa ragione la sua specie fu creduta estinta. E’ uno dei pochi cactus privi di spine ed il suo fiore raggiunge il diametro di 8 cm”.

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Due delle raffigurazioni a colori (cliccare per ingrandire)

Scorrendo le pagine di questo piccolo “reperto” che ho la fortuna di annoverare tra i miei testi e le mie riviste dedicate al mondo delle succulente si scoprono altri curiosi nomignoli come “Il Riccio”, qui classificato come Echinocereus Salm-Dyckianus, poi “La Testa Irsuta”, classificata come Opuntia spinosior, “Il Tessitore” (identificato come Pilocereus sartorianus, che dal disegno parrebbe però l’attuale Cephalocereus senilis). Troviamo poi un cactus dal curioso (e non più utilizzato) nome comune di “La Bottiglietta”: si tratta di Echinocereus fitchii, specie ancora oggi presente in classificazione.  Immancabile in qualsiasi trattazione di cactacee, ecco Astrophytum myriostigma, qui chiamato “La Berretta Episcopale”, nome comune in uso ancora oggi ma semplificato in “Cappello del Vescovo” o “Berretta del Vescovo”. Eccone la descrizione data dal redattore del volumetto: “Conosciuto e apprezzato in tutto il mondo per la sua forma singolare e per i suoi stupendi fiori gialli che durano tutta l’estate (in realtà durano pochi giorni ma la pianta è in effetti rifiorente; nda), questo cactus cresce nelle regioni settentrionali del Messico. Allo stato adulto raggiunge l’altezza di circa 60 cm. La sua colorazione grigio-bianca è dovuta agli innumerevoli fiocchetti di lanugine che lo ricoprono”.

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La descrizione di Astrophytum asterias (cliccare per ingrandire)

Tra le altre piante trattate dall’inserto di Intrepido, compaiono “Il Puntaspilli Messicano”, Mammillaria magnimamma (i nomi sono entrambi ancora in uso) e “Il Re del Deserto”, ossia Carnegiea gigantea, che oggi tutti conoscono col nome di Saguaro. Eccone la descrizione: “Diffuso in Messico e in Arizona, questo mastodontico cactus raggiunge, allo stato adulto, l’altezza di 15-20 metri e il peso di 10-15 tonnellate. Può vivere fino a 250 anni e non comincia a fiorire che a 60-70 anni, nei mesi di maggio e giugno. I fiori si schiudono sul far della sera e tornano a chiudersi allo spuntare del sole”. Il genere Ferocactus è rappresentato nell’opuscolo dalla specie wislizenii, qui denominata “Il Barile”, un nomignolo ancora oggi usato genericamente per Ferocactus ed Echinocactus più che altro nel mondo anglosassone. Molto curioso è il nome usato per Opuntia bigelovii, detta in quegli anni “Il Canguro” e così descritta: “Tra i cactus del genere Opuntia, il Canguro è il più attraente ed anche il più pericoloso che uomo od animale possano incontrare nel deserto, a causa del formidabile armamento di spine di cui madre Natura lo ha dotato. Queste spine, capaci di forare il cuoio più duro, si staccano con estrema facilità anche se vengono solamente sfiorate. E’ originario dell’Arizona e della California e raggiunge 3 m. d’altezza”.

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Altre due immagini a colori (cliccare per ingrandire)

Il vademecum si chiude con “La Signora della Mezzanotte” (Eriocereus bonplandii, genere oggi denominato Harrisia) e con “Il Candelabro”, qui identificato come Opuntia imbricata, sebbene il disegno non ritragga una vera e propria Opuntia, bensì un cereus molto simile ad un esemplare adulto di Neobuxbaumia polylopha. Eccone la descrizione: “E’ così chiamato per la disposizione dei suoi rami che lo fanno assomigliare ad un gigantesco candelabro. E’ originario del Messico e raggiunge l’altezza di 2-3 metri. Lo scheletro legnoso di questo cactus viene largamente impiegato nell’artigianato locale per la fabbricazione di cornici e di soprammobili artistici”. Con questa pianta il mio “ritrovamento” si conclude ed è un peccato che, al di là della data di pubblicazione, non vi siano altre informazioni utili a ricostruire la storia di questa piccola pubblicazione. Per un appassionato di cactus, tuttavia, sfogliare queste pagine ingiallite dal tempo è un curioso e interessante tuffo in un passato lontano, quando di queste piante si sapeva ancora relativamente poco dal punto di vista non scientifico. E i tempi di Internet, delle ricerche veloci (e spesso superficiali) e dello scambio di informazioni tra appassionati in forum e sui social erano ancora lontani… Tanto che anche poche paginette con qualche scarna informazione potevano, a loro modo, diffondere conoscenza.

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